John Edward Williams | Stoner




A volte capita un'attrazione inspiegabile che devo rinviare, perché non è tempo o non è cosa. Anche in questo lockdown ho dovuto fare un giro largo prima di arrivare a questo libro. 

Sentivo gli echi dei commenti entusiastici di chi l'aveva letto ma io... a due riprese mi ero letta le prime pagine ed ecco... boh...l'avevo lasciato li.
Un po' quel che dice Peter Cameron nella post fazione "La maggior parte degli scrittori, buttato giù il primo paragrafo del romanzo, avrebbero rinunciato. A che scopo continuare?"
Poi è arrivato il momento, un grande respiro e via... senza riuscire più a staccarmi...

 Chi è Stoner?

Dice il suo autore, John Williams «Penso che sia un vero eroe. Molte persone che hanno letto il romanzo pensano che Stoner abbia avuto una vita terribilmente triste e miserabile. Io penso che abbia avuto un’ottima vita. Di certo, ha avuto una vita migliore della maggior parte della gente. Ha fatto quello che voleva, si appassionava a quello che faceva, ha compreso l’importanza del lavoro che svolgeva. Ha portato la testimonianza di valori importanti».

Eh si... solo che la scrittura (perfetta) è così asciutta che non lo capisci subito che E' IL LIBRO che ci può venire a parlare di libertà oggi, perché - proprio grazie a quella asciuttezza di linguaggio - sa risultare ancora credibile .. ora che il sentimentalismo che impera nei "celafaremo" e negli "andràtuttobene" ha infettato ogni cosa.

Ma partiamo dall'inizio.... quel grido di Sloane quanti ne ha risvegliati? 

"Shakespeare le parla attraverso tre secoli di storia, Mr. Stoner. Riesce a sentirlo?”
Si, io si, l'ho sentito e come Stoner non ho più potuto dimenticare.

Il romanzo racconta la vita di William Stoner, nato da un famiglia povera di agricoltori, il padre lo manda a studiare agraria. Lui sopporta tutte le difficoltà stoicamente, ma si laurea in lettere e diventa un insegnante nella stessa Università che frequenta. Un matrimonio infelice, una figlia che non sa proteggere. Una carriera ostacolata, per ragioni meschine, da persone ottusamente crudeli, il periodo tra le due guerre mondiali. Nessun colpo di scena, nessuna avventura, neanche le vicende della Storia grande sembrano sfiorarlo: a differenza dei suoi colleghi non si arruola, non va in guerra, non torna con un passato da raccontare. In tutto questo, Stoner fa il lavoro che ama, conosce la passione, non scende a compromessi con i suoi valori. Non è un uomo di successo. Ma è un uomo libero. 
Libero di amare, di dare il cuore a ciò che ritiene degno di amore.

Parlando del suo entusiasmo o di eros generale dice...“Non se n’era mai andato. In gioventù l’aveva dato liberamente, senza pensarci; l’aveva dato a quella conoscenza che gli era stata rivelata – quanti anni prima? – da Archer Sloane. L’aveva dato a Edith, nei primi, ciechi, folli anni del corteggiamento e del matrimonio. E l’aveva dato a Katherine, come se fosse stata la prima volta. Stranamente, l’aveva dato a ogni momento della sua vita, e forse l’aveva dato più pienamente”.

In una apparente remissività, nella ingannevole non-scelta, che lo fa sembrare indifeso in balia degli eventi, “A quarantatré anni compiuti, William Stoner apprese ciò che altri, ben più giovani di lui, avevano imparato prima: che la persona che amiamo da subito non è quella che amiamo per davvero e che l’amore non è una fine ma un processo attraverso il quale una persona tenta di conoscerne un’altra”.

Anche chi si rifiuta di vedere in Stoner il marchio del fallimento non gli perdona il rapporto con la figlia. Abbandonata nelle mani di una madre tossica. Eppure Stoner è comunque l'unico che concede a quella giovane donna un confronto amorevole, non giudicante e autentico; è così sconnesso dalla sua paternità e in linea con l'atteggiamento antieroico, da fargli arrivare a dire di essere felice che avesse almeno la consolazione dell'alcool. Un pensiero tragico per un padre ma anche consapevole del fardello dell'altro, che rivela - senza ipocrisie e orpelli - lo sguardo onesto e empatico di un essere umano verso un altro essere umano.

Difficile etichettarlo Stoner (se se ne sentisse il bisogno) ma io trovo grandezza, ad esempio, nelle pagine finali quando  "La coscienza della sua identità lo colse con una forza improvvisa, e ne avvertì la potenza. Era se stesso, e sapeva cosa era stato."
Traguardo non minore.

Come scrive ancora Peter Cameron: “ Sul letto di morte William Stoner guarda fuori il giardino illuminato dal sole e vede un gruppo di studenti che attraversa il prato. «Camminavano leggeri sull'erba, quasi senza toccarla, senza lasciare tracce del loro passaggio». 
Come quei ragazzi «allegri e incantati», Stoner attraversa con grazia leggera e delicatezza il cuore del lettore, ma la traccia che lascia è indelebile e profonda.”


Sonetto 73 

In me tu vedi quel periodo dell’anno
quando nessuna o poche foglie gialle ancor resistono
su quei rami che fremon contro il freddo,
nudi archi in rovina ove briosi cantarono gli uccelli.
In me tu vedi il crepuscolo di un giorno
che dopo il tramonto svanisce all’occidente
e a poco a poco viene inghiottito dalla notte buia,
ombra di quella vita che tutto confina in pace.
In me tu vedi lo svigorire di quel fuoco
che si estingue fra le ceneri della sua gioventù
come in un letto di morte su cui dovrà spirare,
consunto da ciò che fu il suo nutrimento.
Questo in me tu vedi, perciò il tuo amor si accresce
per farti meglio amare chi dovrai lasciar fra breve.

That time of year thou mayst in me behold 
When yellow leaves, or none, or few, do hang 
Upon those boughs which shake against the cold, 
Bare ruin’d choirs, where late the sweet birds sang. 
In me thou seest the twilight of such day 
As after sunset fadeth in the west, 
Which by and by black night doth take away, 
Death’s second self, that seals up all in rest. 
In me thou see’st the glowing of such fire 
That on the ashes of his youth doth lie, 
As the death-bed whereon it must expire 
Consumed with that which it was nourish’d by. 
This thou perceivest, which makes thy love more strong, 
To love that well which thou must leave ere long.

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