Ex Anima - Bartabas, Teatro equestre Zingaro


“J’ai vu parfois dans le regard d’un cheval la beautè inhumaine d’un monde avant le passage des hommes”. Bartabas

Forse in altra sede, prima o poi spiegherò come ci sono arrivata, ma questa storia comincia qui. Alle 17 di domenica 30 dicembre 2018, davanti all’ingresso del teatro equestre Zingaro di Bartabas, nella periferia di Parigi.

Varcato il cancello, veniamo indirizzati verso l’Accueil/ Ristorante. Una porta di legno è la prima soglia di un mondo. L’edificio ha una struttura circolare con un tetto a capanna, dai tappeti su cui camminiamo, fino allo spazio sopra di noi, non c’è centimetro che non sia occupato da locandine, immagini, abiti di scena, pupazzi, oggetti scenografici degli spettacoli precedenti.
Il cerchio su cui appoggia il tetto riproduce il cerchio dello spazio scenico: riconosco l’auto con gli sposi, la vasca con il maiale appeso pronto per essere squartato, il vecchio con l’orso, la carovana del circo…
Cavalli e scheletri (di uomini, di cavalli, di uccelli) si contendono lo spazio con pupazzi, marionette, divinità messicane e orientali, teschi e tessuti, un tempo sontuosi, in un accumulo zingaresco e teatrale.
Ci sediamo sotto i numi protettori di questa iniziazione, condividendo grandi tavolate. Il pubblico che, a mano a mano, cresce è vario: famiglie con i bambini, ragazzi bene e/o molto alternativi, nonni elegantissimi, signore di ogni età.

Un uomo in livrea, con capelli e baffi bianchi, attacca la manovella dell’organetto e con tono da imbanditore chiama il pubblico in base ai settori. Usciamo in fila dal ristorante, attraversiamo un breve spazio e saliamo una scala che ci introduce ad un nuovo edificio, sempre in legno, che è il teatro Zingaro. La prima parte del tragitto sovrasta le stalle, per poi entrare, dall’alto, nella sala: un grande cerchio di sabbia circondato da panche, tutto in legno, al buio. Illuminato solo da piccole luci lungo il perimetro del palcoscenico. Nel buio si intravede un altro palco più piccolo, in alto, ci sono 4 musicisti con i loro strumenti.

Ex Anima.
Gli strumenti musicali evocano atmosfere orientali e riproducono suoni della natura: la pioggia, il vento, l’acqua dei ruscelli. Dal buio emergono, in una luce radente, un gruppo di cavalli scuri, quieti. La magia del teatro, inevitabile, mozza il fiato. Le centinaia di persone sedute in cerchio svaniscono e ciascuno è chiamato singolarmente a presenziare l’alba del mondo.

La fisicità possente dei cavalli, la loro dimensione fuori scala, la loro bellezza, l’incantevole armonia del loro movimento, fatto di masse muscolari e vento che soffia i crini delle code e delle criniere, e poi il fremito piccolo delle narici, delle orecchie tese che sondano lo spazio a cogliere i segnali.
Lo slancio trascinante del galoppo che percuote la terra, ripreso dai tamburi suonati dai musicisti con i gesti rituali di una danza.

È una successione di quadri. Immagini esteticamente perfette, potenti. L’uso sapiente delle luci scolpisce, sul buio, il volo delle colombe, la passeggiata buffa di un’anatra, i volumi lucidi e vellutati di questi animali così drammatici, la loro fragilità, esposta e inconsapevole, gli occhi, enormi e acquosi. Le lente giravolte dei cavalli, loro virtuosismo tecnico, richiama la vulnerabilità dei corpi ripresi da Berlinde De Bruyckere in Flanders Fields.

Ogni quadro, ogni cambio di scena è millimetricamente gestito dai palafrenieri.
Sempre in scena, sempre invisibili, nascosti dall’ombra. Il tempo è padroneggiato con perizia. Il teatro nasconde ma non nega. Un circo che circo non è, dominato dalla presenza di un burattinaio che non vedi, che muove i fili di marionette che marionette non sono.
La verosimiglianza che svela l’artificio è ciò che può arricchire di senso una realtà che si presta all’ambiguità. Il teatro che io amo fa deflagrare questa latenza.

L’addestramento dell’animale è manifesto. Elemento respingente per alcuni, credo che per molti sia la spinta (o l’equivoco) per portare la famiglia a vedere uno spettacolo che non verrebbe da pensare adatto per bambini. Quale che sia l’attitudine al tema, sicuramente oggi non può essere neutra, mentre lo è stata probabilmente per secoli, dall’inizio delle rappresentazioni che includevano gli animali.
Oggi però il tema dell’addestramento, o se vogliamo, della manipolazione, ha un’eco differente. Ci interroga un po’ di più. Nel teatro che dà forma, che enfatizza e ti porta ad un’immedesimazione, lo spettatore sente in sé la fisicità quieta del cavallo massiccio che si lascia sollevare dalle cinghie, partecipa di quello straniamento già valorizzato da Cattelan, quell’imbragatura che serve per trainare e che invece traina, staccando dal contatto con la terra un elemento che ne è così legato, nel ritmico battere del galoppo.

E ancora la sacralità dedicata ad un meraviglioso e inconsapevole eletto, controparte di un patto su cui si è basata la civiltà fino ai giorni nostri. L’inchino rituale alla divinità svela la sua finzione allungando un premio zuccherato, passo a due tra uomo e cavallo accomunati dallo stesso destino, di una civiltà morente. La morte si consuma nella scena finale, dove una sorta di totem - che è in realtà una macchina da monta - viene introdotto da sei officianti. Segue l’entrata in scena dello stallone nero che, in pochi drammatici secondi, insemina questo totem di legno.
Non sono riuscita a pensare alla quotidianità di questa azione. La rappresentazione pone il protagonista fuori dall’ordinario e anche in questo caso diventa impossibile fare combaciare il rito del teatro con la riproduzione meccanica, senza che questa ci provochi.

Siamo noi in quel gemito, siamo noi in quella morte senza riscatto, siamo noi, affratellati agli animali dall’essere viventi, da una naturalità che ci è propria ma che trascende di gran lunga il nostro privilegio di vederla e poterla rappresentare.

Gli applausi piovono su quei sei/otto palafranieri che proteggono in cerchio, tenendosi per mano, lo spazio del totem inseminato. Tra loro c’è Bartabas.
La gente applaude ed esce. Il cerchio si rompe e i palafrenieri riprendono a terra le giravolte apprese così bene dai cavalli che li hanno preceduti in scena.

Io mi chiedo se questo spaesamento, questo pugno nello stomaco che ha piegato me, sia arrivato anche alle famiglie, ai nonni elegantissimi, ai giovani alternativi. Bartabas dichiaratamente vuole raggiungere tutti, il suo è un teatro popolare. Esco svuotata. Per fortuna, fuori dal teatro Zingarò, ci attende un grande falò che tutto disinfetta.

Intorno, scheletri messi in posa ci osservano da varie angolature. Le persone tornano a disporsi in cerchio, intorno al fuoco. Il fuoco che è parte di quella natura da cui siamo appena stati separati brutalmente.
Mi viene da pensare che il fuoco, come il cavallo, come l’umano, nel loro essere stati creati, e non manufatti, hanno in sé la vita: quella insopprimibile spinta ad essere, cifra irriducibile che sempre riaffiora, sotto l’addomesticamento, sotto l’addestramento, sotto la manipolazione.
Ecco la purificazione del fuoco.

Rientriamo nello spazio inziale del ristorante e guardo diversamente quell’affastellamento grottesco di maschere. Gli scheletri mi sembrano uscire dalla bidimensionalità decorativa per riprendere il loro significato apotropaico.
All’uomo, al cavallo, al fuoco… si aggiunge la Morte.
Perché se in tutte le cose create e non manufatte c’è la vita che risorge, la condizione che ne fonda il Mistero è la presenza della Morte.
Come tutti, come è umano, si fa molta fatica a co-abitare con questa presenza, che emana uno spazio senza speranza, né cinismo. Mi conforta, e ne ho bisogno, ricordare che è proprio da questa difficoltà che trae forza quella capacità immaginativa che ci porta all’arte. Come un seme equino, estorto con l’inganno, che va a fecondare il legno, di cui il Teatro di Bartabas è fatto.


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