Post

IL CANTICO DEI CANTICI adattamento e regia Roberto Latini

Immagine
Avevo grandi aspettative, lo ammetto, su il Cantico dei cantici di Roberto Latini. Perché il Cantico dei cantici è un inno all'amore sensuale che ha permeato la nostra cultura e sono anni che mi riprometto di rileggerlo. E poi perché Roberto Latini è molto ben recensito anche se io, sinceramente, le cose che ho visto sue… boh, non ho mai avuto la sensazione di averlo davvero raggiunto (o forse, col senno di poi, viceversa). Lavori impeccabili per quel poco che posso valutarne io, da spettatrice innamorata del teatro, ma freddi, con tante belle idee ma in genere già viste. E soprattutto poca emozione. Quindi ero curiosa di avere una nuova chance. In questo spettacolo c'è da dire che ci dà dentro alla grande e sicuramente si spende al 100%  ma anche così, a me, non emoziona. Anzi non mi è proprio piaciuto. Il Cantico dei cantici, così com'è incastonato nella Bibbia, tra il Qoelet (Ecclesiaste) e il Libro della  Sapienza,  è un'opera meravigliosa che non frantuma la

Il cielo non è un fondale. Daria Deflorian/ Antonio Tagliarini

Immagine
In scena oltre a Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, ci sono Francesco Alberici e Monica Demuru, che con la sua splendida voce canta alcuni pezzi di Mina, facendo davvero venire i brividi. Bravissimi, tutti. Al solito, non mi ero preparata, ma ero solo felice di rivedere Daria Deflorian, certa che non sarei stata delusa. Amo sedermi a teatro al mio posto e farmi rapire. Quando entriamo loro sono già in scena, Daria appoggiata al calorifero. Ci anticipano che ci chiederanno di chiudere gli occhi. Per i cambi di scena. Buffo, sono anche io una quinta, un fondale? Immediatamente mi sento parte del loro fare teatro. Della loro specialissima semplicità che tradisce una bravura e una preparazione incredibile. Penso a Daria, che trovo brava assoluta, che si racconta al supermercato o ai giardinetti. Mi riconosco. Penso ‘anche io’  e sento che lo pensiamo tutti. Rivedo la scena in cui Antonio si toglie i pantaloni, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Un gesto totalmente ricodifica

Dance first, think later. It's the natural order. Un suggerimento di Samuel Beckett

Immagine
Foto Alberto Catera © A fine aprile ho trascorso una settimana per l'Interculturale Clown - Primavera 2018, condotto da Robert McNeer e Mirco Trevisan, insieme a 14 avventurosi alla Luna nel Pozzo (Ostuni) - posto (davvero tanto) magico creato da Robert e sua moglie, Pia Wachter. Cinque giorni per giocare esplorare, danzare, sperimentare, accompagnati dalla musica, dai suoni, dalle voci. Lingue diverse, suoni diversi. Paesaggi diversi. Anche abilità diverse. Quattordici apprendisti clown alla scoperta del mondo, di sé, degli altri, della natura bella e libera che fa della Luna nel Pozzo il posto speciale che è. Libera qui la natura lo è non tanto perché selvatica, ma perché - curatissima - è lasciata libera di esprimersi, sotto uno sguardo amoroso, accudente, rispettoso dello spazio vitale necessario ma pronto ad intervenire al bisogno. Non ho visto ramo fragile privo di sostegno. Alla stessa libertà siamo stati invitati noi 14. Accompagnati con gradualità da Robert

L'insulto di Ziad Doueiri

Immagine
Su l'Insulto, premetto che ogni nuovo film che voglia mettere voce sul conflitto mediorientale sperando di sollevarsi dal già detto è da apprezzare per l'audacia. Ma la cosa che mi ha colpito immediatamente è stato il linguaggio cinematografico. Che era il mio. Voglio dire, occidentale, americano... insomma la grammatica visiva che ci ha cresciuto a noi pasciuti al di qua della cortina di ferro e al di quà del Mediterraneo. C'è pure la sosia d i Sandra Bullock. Ho pensato ad una conseguenza del terrorismo, dell'Isis...  Quando poi la vicenda si infittisce ed il film prende le forme del "legal drama" lo spaesamento è ancora più forte. Il legal drama per me sta agli US come il tacchino del giorno del Ringraziamento e il Superbowl, un po' come la pizza, il mandolino e il melodramma stanno all'Italia.  Quindi, mi chiedevo, cosa sto guardando?  La storia, in breve, narra del litigio banale tra un palestinese immigrato ed un libanese conservatore.

Tre manifesti a Ebbing, Missouri di Martin McDonagh (2017)

Immagine
Mi è piaciuto. Per tante ragioni. Bravura degli attori. L’epica. La Musica. Tra quelle più nuove posso dire l’imprevedibilità : i cambi di tono tra i vari registri (ironico, grottesco, drammatico, violento) sono repentini e spiazzanti. Le fondamenta del film appoggiano, con scarsa stabilità, sulla polarità tra il bene e il male ma è presto chiaro che i nostri pregiudizi non ci avvicineranno alla soluzione. Il Male, quello opaco senza declinazioni, quello che stupra e brucia non lo vediamo se non sui tre manifesti. Perché forse solo li esiste, così monolitico. Anche il bene lo vediamo contaminato. Non è mai come dovrebbe essere. Però c’è. Ecco, credo di essermi portata a casa soprattutto questo. In fondo. La volontà un po’ secca di toglierci la sedia da sotto il sedere. Che non è mai piacevole di primo impatto, ma poi a me rende grata, se riconosco che è fatto con onestà.

Napoli Velata di Ferzan Ozpetek (2017)

Immagine
E con questo film faccio pace con Ozpetek. Per una volta non ho pensato che dietro la cinepresa ci fosse l’imitatore (meno visionario) di Almodovar. Merito sicuramente di una Napoli superbamente bella in cui la telecamera sembra volersi immergere fino al dettaglio dello scalino di marmo o dentro l’utero velato della farmacia degli incurabili; protagonista delle feste - con le voci fuori campo - delle assenze, e della storia. In più questa volta Ferzan guarda le donne e ne guarda tante: dalle arpie fumettose (Isabella Ferrari e Lina Sastri), alla dolente zia Adele (Anna Bonaiuto) un po’ la signora dei misteri (“la gente non sopporta troppa verità”), alla splendida Catena (Luisa Ranieri) che cuce il tessuto profondo della città - tra fattucchiere, numeri della smorfia e fatalismo - alla trama della storia, la commissario Maria Pia Calzone, forse un po’ troppo ‘CSI’ per Napoli, è quella che a me è piaciuta meno. Giovanna Mezzogiorno è la (brava) coprotagonista della cit

IT Stephen King

Immagine
It è un romanzo di formazione, in cui un gruppo di ragazzini incontra il Male assoluto. Il concatenarsi perfetto degli eventi che si susseguono nel libro acquistando potenza e profondità - grazie alla magistrale scrittura di S. King - è tradotto nel film con la velocità dei colpi di scena e parecchio si perde. Ma a suo merito il film lascia intatto il richiamo a quelle primissime sensazioni di inquietudine che accompagnano l'adolescenza, il corpo che cambia, il buio delle scale della cantina in cui ti avventuri da solo, il saggiare - per tentativi -audacia e spavalderia nei primi incontri faccia a faccia con il mondo o con la propria solitudine, l'amicizia come riparo e balsamo dalle paure più totali e destabilizzanti, la famiglia che ti lasci alle spalle. Il proprio primo dolorosissimo mettersi al mondo. Ecco, il film poi ad un certo punto vira in una versione horror dei Goonies e a quel punto realizzi che S.King è già uscito da un pezzo ma ti aspetta - ogni vo